Il telo

«Lei è bello alto e ha braccia lunghe, Volpino. Le basterebbe un saltello per afferrare il lembo e riportarlo a terra».
Mi aveva appena mostrato come andasse fatto e ora se ne stava piegato sulle ginocchia.
Le parole riportate all’inizio, venivano in realtà dette a una certa distanza fra loro, mentre la bocca tutta aperta cercava in giro l’ossigeno, l’aria.
Bergamasco aveva gambe corte che dovevano sobbarcarsi il peso di una pancia sporgente e aveva dovuto farne quattro o cinque di salti per arrivarci e soltanto con la punta delle dita. Ma alla fine ci era riuscito. Pigiò ancora perché rimanesse ben attaccato al suolo e poi portò l’indice all’altezza del naso. Lanciò un’occhiata in giro e con un gesto veloce della mano mi intimò di filarmela.
Non ci voleva molto per capire un’operazione così semplice, ma la prima volta ci doveva essere per forza qualcuno a mostrartelo. Non mi rendevo conto di quale posizione ricoprisse Bergamasco all’interno degli Spatriati, ma a dire il vero neppure sapevo se esistesse una gerarchia, qualcuno che ordinasse e qualcuno che obbedisse. Per l’organizzazione, al punto in cui si era arrivati, l’importante era che uno esemplificasse e un altro dimostrasse di avere compreso e di sapere ripetere.
Ci pensavo mentre camminavo in fretta, se poi anch’io, a mia volta, avrei dovuto fare l’insegnante e mostrarlo. Ci pensavo più con orgoglio che con preoccupazione. Ora anch’io facevo parte degli Spatriati, sì, proprio loro, e il mio primo compito, senza mostrare di occuparmene, era quello di vigilare. Mi fermai sotto il portico e mi guardai intorno. L’orologio del vecchio municipio segnava le cinque del pomeriggio. In giro nessuno. I negozi avevano le saracinesche abbassate e davanti ai bar chiusi c’erano torri di sedie impilate e trattenute da catene mezzo arrugginite. Libertà di campo, finché se ne voleva. L’unica rimasta. Gli occhi veloci scrutavano la fuga di una strada deserta o i filari dei pioppi che trattenevano forte il cielo. Poi si guardava bene in basso e dopo più in alto, sopra i tetti allucinati. Non era difficile notare se si stesse strappando, se il telo cominciasse a scivolare via dal rimbocco del suolo. Più in lontananza lo si poteva notare da certi rammollimenti giganteschi e ammaccature, da certe pieghe e lacune difformi, che il lenzuolo non era più tirato. Ma per il momento, grazie al faticoso salto di Bergamasco, tutto sembrava a posto. Nessuno degli Spatriati mi aveva saputo spiegare quando e con quali intervalli di tempo capitasse. Più che altro alzavano le spalle e allargavano le braccia. Bisognava sbrigarsi, altro che parlare dei massimi sistemi.
Che però succedesse non lo si poteva più negare e là dove sorgevano i posti di blocco ordinati dai Custodi dell’Incubo, potevi essere sicuro che lo slittamento fosse più accentuato e quasi impossibili i salti da compiere per raggiungere e riafferrare l’orlo. Le forze dell’ordine – come sempre è stato e sempre sarà – portavano divise nere, armi lucenti e grossi cani con i collari appuntiti. Erano gli unici che ormai si vedevano in circolazione.
Già, i cani.
Era successo a dicembre. L’ordinanza aveva stabilito che i loro padroni dovessero farli tutti fuori. Consegnarli o sopprimerli pietosamente di propria mano. I cani bisognava farli uscire, almeno per i propri bisogni e il fatto distraeva i proprietari dallo starsene in casa, a “implementare le proprie relazioni sociali senza giungere al contatto fisico”. Come ci si poteva riuscire se il cane continuava a guaire e a indicare col muso la porta che vedeva chiusa?
“Implementare le proprie relazioni sociali senza giungere al contatto fisico”, così si leggeva su una delle prime ordinanze. In quella di dicembre c’era scritto in grassetto che bisognava uccidere i cani. E tutti avevano chinato la testa e avevano obbedito. Così era scomparso per sempre il migliore amico dell’uomo, tranne quegli esemplari che erano considerati come i migliori amici delle forze dell’ordine. Ma i nostri? Li si salutava per l’ultima volta, una pacca sul dorso e poi li si attirava con un bocconcino. L’ordinanza, vista la situazione, consigliava di non sprecare risorse economiche: bastava stringere forte intorno al muso una busta di plastica. Così più nessuno si sarebbe disturbato a portare fuori il cane e potevamo starcene tranquilli in casa a implementare le nostre relazioni sociali senza giungere al contatto fisico.
Attraversai in fretta la strada perché là in fondo mi era parso di scorgere qualcosa di nero, luccicante e appuntito. Una nuvola minacciosa.
Aprii il portone e salii sino a casa. Anch’io avevo avuto un cane. Quando lo portarono via non sembrava contento, anche se era da giorni che non usciva. Avevo cercato di nasconderlo. Sulle scale si era voltato indietro a guardarmi e pensava potesse avere ancora una scelta. Ma l’intestino e la vescica lo spingevano fuori e nessuno mi aveva detto se almeno, prima, lo avessero lasciato svuotare. Questo pensiero più di altri mi tormentava e mi faceva svegliare la notte, di soprassalto.
Accesi la luce e diedi con l’indice un colpetto sul capo al cagnolino che mi era rimasto: lì sul ripiano della libreria, un piccolo manufatto canino di colore marrone, che ciondolava la testa avanti e indietro per poi tornarsene fermo. Comunque sembrava indifferente al fatto che io lo animassi con un tocco oppure no. Spingendo il pulsante della luce si era acceso anche il computer e subito una voce femminile acuta, materna, insofferente, mi invitava a prendere la mia postazione. Terminate lì sopra le mie ore di lavoro furbissimo, ora mi attendeva la febbrile caccia alla volpe delle relazioni sociali.
Avevo ventisette anni e vivevo da solo. Così la voce avrebbe continuato a insistere finché non mi fossi collegato a una piazza virtuale su cui si allacciavano incontri nell’etere. Non me ne importava. Mi avvicinai alla finestra per dare ancora un’occhiata attraverso il vetro e controllare un’ultima volta pure da lì che il telo fosse ben fissato e senza imperfezioni. Dalla mia finestra si scorgeva un viale, con gli alberi bianchi mangiati da una malattia parassitaria e un largo d’asfalto con una fontana cementata.
Si scorgeva poi il cielo che arrivava sino alle radici, là dove le case addossate lasciavano invece uno spazio quadrangolare. Mi parve che una ragazza dai capelli lunghi camminasse in fretta verso quel punto.
Sbattei il naso contro il vetro: lo era, non c’era da dubitarne, con un impermeabile grigio, e arrivata contro l’azzurro, senza neppure guardarsi intorno, spiccò un piccolo balzo con le braccia protese. Ma la voce, come da programma, continuava ad aumentare di volume e io fui costretto ad andarmi a sedere, con le mani premute sulle orecchie.

A notte fonda, libero finalmente da ogni tipo di impegno sociale, immaginavo che fosse sulle pareti di casa. Prendevo una breve rincorsa oppure partivo da fermo, accucciandomi sui talloni. Spiccavo il salto e cercavo di arrivare il più in alto possibile, estendendo le braccia e muovendo a scatto le dita come se dovessi afferrarlo al volo. A volte ricadevo male e feci anche andare in frantumi un vaso che mi aveva affidato mia madre. Ma un po’ di allenamento ci voleva, anche se nessuno degli Spatriati, compreso Bergamasco, me lo avesse espressamente richiesto. Sarei stato più agile e pronto.
Di giorno, sempre alla stessa ora, spalancavo le finestre del salotto dove si trovava la postazione col computer. Si era arrivati nel bel mezzo di Aprile, ma nonostante il cielo sereno e un sole già caldo, nessuno le apriva o tantomeno si affacciava fuori. Per me era un compito legato all’attività segreta. Per eludere la sorveglianza informatica dei Custodi dell’Incubo, si era tornati alla pratica del lancio dei bigliettini.
Ne aspettavo uno dalla strada di sotto, su cui sarebbe stato scritto che era giunto il momento anche per me di scendere e di mettermi in azione. Entravano solo le mosche, però. La finestra bisognava lasciarla aperta solo dieci minuti.
Qualora se ne fossero accorti, la nuvola nera e pungente sarebbe salita da me per una spiegazione e avrei subito l’interrogatorio. Quando le richiudevo mi affacciavo un’ultima volta per controllare se proprio all’ultimo momento non fosse arrivato Bergamasco, la testa calva con l’aureola di capelli brizzolati, o ci fosse semplicemente qualcuno, un uomo, una donna, un bambino. Non per forza appartenenti agli Spatriati. Un uomo, una donna, così. Un bambino, magari. Se la pallina di carta fosse rimbalzata contro il vetro e ricaduta sull’asfalto, ci sarebbero stati guai grossi per tutti. Il fiuto degli ultimi cani esistenti, non amici dell’uomo, la prova calligrafica, l’ispezione a tutti gli appartamenti, del condominio e dell’intero isolato.

Un giorno che ero seduto davanti alla mia postazione e stavo implementando le mie relazioni sociali senza giungere al contatto fisico, sentii come una specie di soffio passarmi sul collo. Alzai lo sguardo e vidi il cagnolino sulla libreria che annuiva con la sua piccola testa marrone. La finestra era spalancata. Io andai subito dalla parte opposta. Era stata una pallina di carta a colpire il giochetto e a farne iniziare il ciondolamento.
Non vi erano scritte parole, ma una piccola mappa della città e una croce che indicava il luogo in cui si prevedeva potesse succedere. Il numero inserito lo interpretai come un’indicazione oraria e siccome quell’ora era già passata da un pezzo, capii che la mia ronda e forse il mio intervento erano stati fissati per il giorno successivo. Ero emozionato e allegro, come fosse stato un messaggio di appuntamento con la ragazza del viale, quella che aveva spiccato il salto con tanta grazia, tra un albero malato e l’altro.

Avevo messo nella tasca della giacca il cagnolino giocattolo perché avevo deciso di tenerlo ai miei piedi quando avrei dovuto saltare per riafferrare il telo che se ne stava andando. Camminavo in fretta, mi guardavo intorno e somigliavo al cagnolino, anche la mia testa ciondolava, ma da destra a sinistra e da sinistra a destra e non dicevo sempre sì. Mi parve di vederla che si nascondeva in una via laterale, dietro ai bidoni, l’impermeabile grigio, i capelli lunghi. Forse l’avrei ritrovata là dove bisognava intervenire, a darmi una mano, visto che saltava così bene.
Riconobbi gli edifici della stazione in disuso, dove più nessuno entrava o usciva. Rasentai la massicciata che divideva la strada dai binari e mi fermai al passaggio a livello. Era lì che avrei dovuto guardare. Sembrava tutto a posto. Ben tirato, tutto teso, senza problemi. Ne fui quasi deluso. E già avevo posato tra i sassi dietro di me il cagnolino portafortuna. Mi accorsi di un tremolio, nemmeno da esserne così sicuro, da credere piuttosto fosse un appannamento della vista. No. Quasi impercettibilmente, ma si stava muovendo e ci voleva poco a capire che in un attimo sarebbe scivolato verso l’alto. Già si intravedeva una lista sottile di vuoto. Io ero uno Spatriato e dovevo agire di conseguenza.
Mi preparai a saltare, ma sentii là dietro una presenza diversa dal cagnolino. Somigliava un po’ a lui in effetti, ma era molto e più grande e vivo, col collare appuntito. Lo stava annusando. Vidi gli altri avvicinarsi a passi controllati, con un ringhio cattivo. Sorrisi. Avrei saltato, mi sarei aggrappato con tutte le mie forze al telo e i cani addentandomi alle caviglie, mi avrebbero trascinato sino a terra, dove avrei terminato il lavoro. Fino a quel momento probabilmente non avrei sentito dolore.

La realtà sta sparendo. Centimetro dopo centimetro il telo scivola via. Qualche coraggioso, eludendo i Controllori dell’Incubo, esce per strada, di nascosto, giorno o notte che sia non fa più differenza. Fa un piccolo salto, arriva ad afferrare il lembo e lo tira giù, rimette a posto il telo. Ma la realtà, appena fissata e riaggiustata, tende di nuovo a slittare e piano piano a salire. Nel mondo sono a migliaia che escono, anche bambini. Compiono il loro ridicolo balzo e poi se ne tornano a casa, a controllare dalla finestra che non se ne vada via tutto in un colpo solo.

 

Scritto da Paolo Gera.