La maestra

Anche stamattina non è una di quelle limpide giornate invernali che regalano la vista delle Alpi da una parte e degli Appennini dall'altra, imbiancati di neve. E' una interlocutoria giornata di nebbia, quella umidità tipica che sfuma l'orizzonte portandoti quasi  credere che il mondo sia tutto lì, che la sua estensione sia di qualche chilometro ai lati di questa linea ferroviaria che taglia la Pianura Padana. E fa un po' male scorrere così sulla propria terra senza vedere quei monti che hanno incorniciato le estati della mia infanzia.

Ma è questa mattina che rivedo quella nonna morta di timidezza. Quando mi era stata raccontata la sua storia non avevo saputo trovare altra spiegazione. Ma era tanto tempo fa, quando si vuole un perché per tutto. E subito.

In verità era la mia bisnonna. Era parte di una di quelle famiglie che più avevano avuto fortuna in un piccolo paese dell'Appennino Emiliano alla fine del secolo scorso. Aveva studiato, era maestra. Ma era una figura che non spaventava nessuno. Era sempre una donna, il suo compito, fra i tanti, era occuparsi di bambini: i suoi, perché doveva pensare in ogni caso a sposarsi, quelli degli altri, perché un maestro, un uomo, sì andava bene, ma una donna era meglio. I bambini erano faccende da donna.

E allora intorno alla maestra c'era reverenza e affetto.

O almeno così era, a quel tempo e in quel paese.

Possiamo chiamarla la Maestra, come tutti del resto, allora come oggi, quando ancora se ne parla.

E aveva sposato un ribelle, il Bisnonno, uno che "andava a scuola dai socialisti". Perché non aveva avuto tempo per essere bambino: i soldi non c'erano, lavorare conveniva, studiare no. A vent'anni anni non sopportava le ingiustizie subite da suo padre, mezzadro, da parte del Padrone. Che nemmeno si considerava di poterlo chiamare per  nome. Era il Padrone: tutto il resto sarebbe stato un eccesso di confidenza. E anche questo il Bisnonno non lo capiva, ma come fare? Se avesse recuperato quello che era stato costretto a barattare con la sopravvivenza, se avesse imparato "a leggere e far di conto" avrebbe scacciato quel dolore profondo. E i socialisti facevano scuola, la sera, in un fienile. Il Bisnonno aveva cominciato con rabbia e proseguito con passione.

Ma il Padrone non poteva permettere tutto questo. Al momento di spartire il raccolto, non l'aveva mai guardato negli occhi, aveva parlato solo con suo padre e sferrato l'attacco alla fine di quel parlare stagionalmente sempre uguale.

"Tuo figlio va a scuola dai socialisti."

"Sì, signor Padrone, non sa leggere. Da bambino non andava a scuola, lavorava. E' un gran lavoratore."

"Non va bene. Non voglio mezzadri amici dei socialisti."

"Sì, signor Padrone, non ci andrà più."

Ma il Bisnonno aveva urlato "E invece io continuerò ad andarci!". Suo padre aveva avuto un leggero tremito: rispondere così al Padrone era...no, semplicemente non era, non era nei suoi pensieri questa possibilità.

Le parole, sebbene urlate, si erano sciolte nell'aria senza lasciare nemmeno un pensiero nella concezione del mondo del Padrone:

"Se tuo figlio continua con quella gente tu con me hai chiuso. Di mezzadri ne trovo finché voglio."

"Sì, signor Padrone."

Dopo aver urlato se n'era stato in disparte, in piedi lungo il lato più corto della scrivania, nella penombra di quella stanza grande e arredata con il gusto dell'ostentazione attenta al risparmio.

Ma in un attimo spinse da parte suo padre e si appoggiò alla scrivania, a braccia larghe, sovrastando il Padrone. Aspettò che lo sguardo di questi risalisse dalle sue mani ai suoi occhi e disse: "Io non sono il vostro mezzadro. Mio padre è il vostro mezzadro. Io non faticherò più per mio padre e quindi nemmeno per voi."

Se ne andò verso la porta e quasi vi era arrivato quando il Padrone tentò ancora di affermare il proprio potere su di lui: "E dove andrai a prendere la farina per mangiare?"

Negli anni, con i figli, affermò sempre che quella frase era talmente prevedibile che aveva sperato di sentirla. Si voltò e picchiandosi, prima con la destra, poi con la sinistra, le braccia appena al di sotto delle spalle, disse: "Qui e qui."

Mantenne la parola: dieci anni in una miniera di carbone, tanto a nord come aveva imparato su un vecchio atlante dei socialisti, in Belgio, a farsi scoppiare i polmoni, a subire offese e umiliazioni in una lingua non sua, ma che capiva benissimo, a risparmiare i centesimi.

Quando tornò a casa comprò un podere lontano dal paese, dove la valle si arrampica a ridosso delle montagne: prati ondulati e un grande bosco, per non sentire più il freddo.

Convinse i genitori e le sorelle a seguirlo, per non essere più mezzadri; non si sentì mai Padrone, solo un po' più libero.

E aveva sposato la Maestra, di una famiglia di padroni, più colta di lui. E aveva mischiato tutto: lui entusiasta, rude e ribelle, lei riservata, gentile, ma convinta delle proprie possibilità.

E caparbia. Non era facile vivere con il Bisnonno. Ma lei lo aveva scelto ed era stata una scelta consapevole e totale. La sua  famiglia non aveva approvato e si era quasi dimenticata di lei. Non ne aveva trovata un'altra, di famiglia. I genitori del Bisnonno erano troppo stanchi e un po' umiliati da quel figlio che era diventato se stesso: aspettavano solo di morire. Le sorelle, quelle cognate senza marito, si inventavano la vita attraverso piccole malignità che la Maestra seppelliva tra le cose di tutti i giorni: i bambini, le preghiere perché non faccia tempesta, il raccolto, la semina, la neve che le rubava il sentiero in mezzo al bosco per arrivare a scuola.

Il Nonno nacque in una notte di ottobre. Non fece, come tutti i nonni, la guerra: scansò la prima perché bambino, e anche la seconda.

La Maestra aveva continuato la sua vita di sempre, dividendosi fra marito, figli, campi e scuola. Era stato così anche quando era incinta dei primi due figli, era sempre così per le donne di allora.

Cosa avesse causato i problemi non si sa. Ma quella notte l'esperienza della levatrice non sarebbe bastata come per le altre due volte. E allora il Bisnonno corse attraverso il bosco, su per il sentiero, verso il paese. Il freddo aveva reso limpido il cielo e la luna si infilava anche tra gli alberi lungo una via che avrebbe comunque ritrovato, perché lui l'aveva tracciata, a colpi d'ascia, per arrivare più in fretta a scuola, in chiesa, al mercato.

La casa del Signor Dottore era stata disegnata in omaggio al suo amore per la storia, pensando al bel tempo dei feudatari: una costruzione bassa che su di un lato si impennava in un torrione ornato di merli.

Il Bisnonno si scoprì a battere sul portone e a urlare. Gli aprì un medico tanto scocciato quanto assonnato che tentò di scaricare il problema sull'esperienza delle donne prima, sull'arte della levatrice poi. Ma alla fine si convinse, forse per la disperazione del Bisnonno, quel "vi prego, venite" che tanto stonava detto da lui, forse perché si trattava della Maestra.

Il Bisnonno lo guardò vestirsi, prendere la borsa, uscire di casa, andare verso la stalla, preparare il calesse e guidarlo per le strade piene di polvere. Con una lentezza che gli derivava dal non aver mai dovuto combattere per la vita.

Seduto a cassetta di fianco al Dottore, il Bisnonno si trattenne dal prendere le redini e lanciare il cavallo verso casa. Si chiese chi più si sarebbe indispettito: il Dottore o quell'animale fortunato, abituato anche lui a quella vita tranquilla? Non poteva permettersi di compromettere tutto, il Dottore doveva vedere sua moglie. E anche suo figlio.

Cercava di calcolare quanto tempo stavano perdendo, un minuto, due minuti, dieci minuti. Come faceva a sapere quanto potevano contare quegli attimi? E il Dottore, almeno lui, lo sapeva?

Certo, poi, con il suo aiuto e tra le urla di sua madre, il piccolo iniziò a sperimentare questa vita, e quel sentirsi tanto scoppiare i polmoni da essere paonazzo. Fu da allora che pagò la sua voglia di vivere con uno scompenso cardiaco che presto si aggravò a causa di una persistente forma di asma. E che gli evitò di "partire soldato".

Il Dottore se ne andò che già era mattina, raccomandandosi di chiamarlo se ci fosse stata necessità. Non accettò nessun compenso. Il Bisnonno non riuscì mai a capire il perché.

Lo guardò andarsene mentre alle sue spalle il tono come sempre lamentoso delle sorelle gli tolse il sollievo di sapere che tutto era andato bene: "Ma guarda se bisogna causare tutta questa confusione per un bambino...la signora ha imparato presto a lamentarsi e ad avere tutti ai suoi piedi" le sentì dire.

E anche la Maestra le sentì. Quando il bisnonno salì in camera per vederla tentò quasi di scusarsi: "Non disturberò più nessuno, ora." Lui guardò quell'ultimo suo figlio, così diverso dagli altri due, così gracile in quella culla di legno ereditata dai fratelli. Guardò anche la Maestra, prima di andarsene, e cercò di mitigare le parole che il rimbombo delle scale vuote aveva portato a lei: "Dormi. E non ti preoccupare: chiama se c'è bisogno".

Non chiamò. Non lo fece fino all'ultimo, quando ormai le forze se ne erano andate. Lo fece rovesciando le poche cose, una spazzola, l'immagine di Maria, che aveva sul comodino. Nessuno sentì.

E la Maestra morì inghiottita nel sonno causato da un'emorragia inarrestabile.

Il Bisnonno non accusò mai nessuno, non odiò mai nessuno, nemmeno se stesso. Ogni tanto raccontava i fatti, così come si erano svolti, nei minimi particolari, sempre uguali.

Trovò moglie quasi subito, altra cosa più che ovvia nel mondo di allora.

E quella vecchina che io chiamavo "nonnina", che dava un nome a tutte le sue galline, e non stava zitta un minuto, sposò il bisnonno e i suoi tre figli "perché lui ballava bene".

La Maestra sopravvisse nei ricordi della gente, nei racconti del Bisnonno e nei sogni di quell'ultimo figlio.

Il Nonno, al mattino, spesso confessava: "Stanotte ho sognato mia madre". La Nonna chiedeva: "Com'era?". La risposta era sempre la stessa: "Non lo so."

Anche il nonno raccontò ai figli di sua madre e mio padre a noi. Così lei sopravvive nei miei pensieri.

Avevo parlato di timidezza. Non lo credo più. Senza clamore si era ritagliata uno spazio suo in una cultura che aveva accettato perché non le sarebbe riuscito di cambiare.

La mia tesi di laurea era dedicata anche a lei, lei che è stata se stessa, in quel tempo e in quello spazio.

Si chiamava Amenide.

 

Scritto da Leonarda Vanicelli