Barba Gio'

 

 

Lo chiamavano Barba Giò: era un omone con una grande barba.

Esiste una sua foto appesa al Caffè Photoin piazza Schiaffino, a Camogli: in piedi, semi rivolto a parlare con qualcuno a mezza scala, lo si vede solo di profilo, è scalzo, le braghe arrotolate al ginocchio, un gonnellino e un sacco intorno alla vita lo qualificano come un camallo del porto di Genova. Nella parte superiore del corpo indossa un” visitto”, giacchino tipicamente femminile, regalatogli da qualche donna del posto, o, meglio ancora, trovato negli stracci. Per lui non è un problema, dal momento che l’indumento svolgecon decoro la funzione di coprirlo. Tiene sulla testa una terrina,il suo unico attrezzo casalingo.

 La sua forza era leggendaria. Racconta la mia nonna di avergli chiesto aiuto per traslocare.

Mentre lei si affretta a svuotare un comò, togliendo i singoli cassetti:

“Nu gh’è besognu, scignua!” dice lui.

 E, messo il mobile con dentro la biancheria sulle spalle, lo porta a destinazione.

Valutava la paga del suo lavoro in base alle finanze del richiedente, spesso non disdegnava pagamenti di naturaalimentare che faceva collocare nella terrina di terracotta posta sulla testa per poter pescare con la forchetta e nello stesso tempo andarsene in giro.

Un giorno al porto lo manda a chiamare l’armatore di una nave, lui non lo conosce di persona, ha però lavorato col padre, un galantuomo.

-Zio Giò…”

“Cumme?”

“Scusate, Barba Giò: ho bisogno di un piacere. Ho un grosso carico da movimentare, il lavoro deve essere fatto con la massima urgenza perché mi è capitato un nolo molto importante.”

“Sapete come la penso: un lavoro ben fatto ha bisogno di tempo.”

“Sono disposto a pagarvi bene.”

“Non è questione di palanche.”

“è un favore che vi chiedo, un nolo di questa importanza mi permetterebbe di sistemare alcune pendenze. In questo momento ho tutti i miei uomini impegnati su altre barche e non posso richiamarli.”

“Può essere pericoloso.”

“Per questo lo chiedo a voi. Mio padre, il vecchio “baccan” si fidava solo di voi. Siete il migliore.”

“Ci penserò.”

Per tre giorni sale e scende dalla nave, portando i colli senza mai fermarsi, alla fine il lavoro è fatto.

Al momento di pagare, il giovane padrone comincia a procrastinare: per un motivo o per l’altro non si fa trovare.

Passa qualche tempo senza che succeda nulla.

 Poi, un mattino gli altri camalli suoi amici vedono Barba Giò si dirigersi verso un cumulo di pietre, sceglierne una particolarmente grossa: un “magollo”, e caricarselo in spalla. Decidono di seguirlo senza parlare.

Nel momento in cui entra nello scagno, i presenti ammutoliscono.

“Sono venuto per essere pagato.”

Dice e posa l’enorme masso sulla scrivania che cede di colpo.

Il padrone, senza fiatare, estrae dalla tasca il portafoglio, conta una mazzetta di soldi e li posa accanto alla pietra. Sposta lo sguardo prima su Barba Giò, poi su gli amici:

“Va bene? “Chiede.

“Va bene. “

All’ uscita Barba Giò, paga da bere a tutti i camalli intervenuti, poi va in trattoria e fa riempire la terrina di maccheroni, con quella in testa contratta con un vetturino il costo di un viaggio fino al Camogli.

Quando lo vedono arrivare i monelli della calata non nuovi alle sue imprese, si passano la voce e corrono dietro alla carrozza salutandolo:

“Barba Giò! Barba Giò!”

Lui apre il finestrino e lancia loro gli ultimi soldi.

“Alla bera!” Grida.

Cioè: “A chi tocca, tocca!”

 

Scritto da Giuseppina Picetti