Ossessione

La luce del mattino filtra con prepotenza dalla finestra e invade i miei occhi. Il mio corpo la respinge, celandosi sotto il lenzuolo, in cerca di ulteriori dieci minuti.

Il tuo profumo, forte e deciso, invade il mio spazio e i miei pensieri che, ora come non mai sono rivolti a te.

Sei il primo desiderio che accende la mia giornata anche se ho la consapevolezza di non essere l'unica, accetto questo compromesso per appagare il mio bisogno fisico e spirituale.

Ho il desiderio di riscaldare il mio corpo, di inebriarmi del tuo profumo, di farmi trascinare dall'eccitazione dei sensi in ogni momento della giornata.

Ti desidero così come sei, non ho mai cercato di "correggerti" o darti toni colorati.

Solo tu mi fai battere forte il cuore, risvegli le mie giornate, fai volare le mie idee e, quando sono esausta, riaccendi i miei pensieri, aprendoli in un turbinio di emozioni.

Sono tornata con i pensieri a qualche giorno prima, quando ti ho visto in un quadro, posseduto avidamente da un'altra donna. Il suo viso era deliziato, lo sguardo chiaramente orgoglioso di tenerti tra le sue mani.

Eri avvolto da una ceramica pregiata di un'altra epoca, eppure eri ancora caldo.

Ferma davanti al quadro, tanto vivo nei colori e nella sua immagine, mi sono fatta prendere da una cieca gelosia; avrei voluto portarti via da quella donna … Ti volevo solo mio.

Per un sol secondo, il corpo mi ha tradita e, senza rendermi conto di ciò che stava accadendo, mi sono avventata  su di te, per averti.

All'improvviso, uno stridio ha colpito il mio udito e una mano poco gentile mi ha afferrato facendomi sussultare riportandomi alla realtà.

Un uomo in divisa, con tono scortese, mi chiese quali fossero le mie intenzioni, dandomi un brusco strattone di rimprovero.

Provai a spiegare e rispiegare, a lui e alle persone indignate attorno, che volevo solo un caffè, ma nessuno sembrò credere a questa mia versione.

La telefonata fatta all'avvocato di mio padre non fu altrettanto semplice.

Oggi papà è un famoso architetto, anche suo padre lo era, così come il padre di suo padre.

Aveva sempre sostenuto che io, Anna, ero una ragazza "sopra le righe" e non era certo un complimento, detto da una persona imperscrutabile come lui.

Mia madre invece è morta da quasi quindici anni.

Non è solo il suo amore che mi manca, ma quell'abbraccio che dentro conservava tutto il nostro mondo e, come per assurdo, mi manca anche quella ninna nanna stonata che cantava ogni sera per farmi addormentare. Mi mancano le fantastiche avventure di lei e di mio nonno che raccontava con l'esaltazione di una bambina nella nostra casa di Modica, mentre macinava del caffè.

Suo padre era comandante di una nave mercantile, importava caffè da vari paesi del mondo e lei, da ragazzina, spesso lo accompagnava nei suoi viaggi. Mi narrava di paesi lontani, di popoli a me sconosciuti, e di quando dovevano scappare dalle navi pirata che cercavano di rubare il loro prezioso carico.

Le emozioni del passato, il sentimento, i battiti di cuore e il dolore per chi ho perso mi fanno cadere in un eterna ricostruzione di un rompicapo mentale.

Ed è per questo che è così difficile spiegare a una persona un nostro particolare comportamento.

Del perché teniamo un orsacchiotto logoro rinchiuso in un angolo del armadio o perché un semplice profumo può portare la nostra vita ad un ossessione…

Forse, per proteggermi dal dolore ho dimenticato parte della mia vita o semplicemente è ben nascosta in qualche angolo della mente. Spingo quei ricordi sul fondo del mio cuore per non farli salire in gola, per non avere quel nodo, quella stretta di mani che cercano di togliermi il respiro.

Una forzatura che propongo alla mente e al cuore, per non perdere me stessa in un  passato che mi è stato" rubato" .

Credo sia così anche per mio padre, non so, non abbiamo mai affrontato l'argomento. Solo sguardi che s'incrociano e si distolgono all'istante, sguardi con dentro sempre la stessa domanda: "tu, come stai?". Sguardi che rimangono sospesi, cadono giù verso il basso, scivolano come acqua di un fiume in piena.

Ho provato a scrivergli ma il risultato è stato assai deludente; delle palline di carta invadono la stanza e non riesco ad andare oltre la frase "Caro padre,...". Null'altro esce, nulla di informale, nulla di amorevole, nulla che faccia pensare a un normale rapporto tra padre e figlia.

Che cosa cercavo? "CON-SI-DE-RA-ZIO-NE!".

La mia crociata verso la verità, per quanto potesse apparire strana, si trovava nella semplicità della storia stessa e non nella distorsione e nelle idee bizzarre del mio avvocato, che ostacolavano le mie intenzioni. Riconoscere la realtà senza mai fermarsi ad una futile apparenza era uno dei valori che mia madre mi aveva insegnato, ma ero altrettanto consapevole che l'ipocrisia è  la parte predominante di quello che gli altri amano sentirsi dire, anche se questa è degna compagna della falsità e di questo il mio avvocato n'è era ben consapevole.

Le sue storie erano alquanto più fantasiose della mia realtà. Come quella sulla vecchietta con il bastone, su cui inciampavo. L'improvviso svenimento e perfino la perdita di una fantomatica  lente a contatto, che per altro non uso. Tutto per far credere ad una perdita dell'equilibrio che mi avrebbe fatto protendere in avanti le mani, oltre la rete di sorveglianza, facendo così suonare l'allarme. Per fortuna, quel "bravo poliziotto" avrebbe impedito la mia rovinosa caduta tirandomi per un braccio.

L'avvocato un po' mi faceva pena. Continuava a camminare avanti e indietro in quei pochi metri, battendo la mano sulla sua testa, credendo di aiutarla a pensare. Sicuramente mio padre era un cliente troppo importante per essere perso a causa di una storia così irrilevante come la mia.

Continuavo a "pappagallo" con le mie teorie. Gli raccontavo dei viaggi di mio nonno in Etiopia dove veniva accolto con una " sorta" di cerimonia del caffè. Del pastore Kaldi, che un giorno, come di consueto, uscì di casa per portare a pascolare il proprio gregge, e di come notò che le sue  bestie fossero attratte da una particolare pianta dalle bacche rosse. Le capre, dopo averle assaggiate, rimasero euforiche per l'intera giornata. Il pastore preoccupato per le sorti dei suoi animali, decise di raccogliere qualche bacca per mostrarle ad un monaco. Quest'ultimo, intimorito, gettò qualche chicco rosso nel fuoco e giudicò immediatamente la pianta come "malefica". Ma una volta tostate, quelle piccole perle rosse sprigionarono una fragranza nell'aria che rapii anche il suo animo riportando il vecchio a più miti conclusioni. Poi gli raccontavo di Trieste, dove il tempo sembrava sospeso nei suoi Caffè storici quando scrittori e poeti come  Joyce, Svevo e Saba  sorseggiavano l'esotica bevanda, e di Modica città incantata dai dolci motivi di Gesualdo Bufalino.

L'avvocato mi guardava sconfortato, cadeva sconfitto sulla sedia, scrollava la testa e borbottava; elogiava mio padre e le sue idee, aggiungendo invece, a voce bassa, cose poco carine sul mio conto.

Continuava a dirmi che non capiva perché mi fossi intestardita a quel modo.

Il culmine arrivò il giorno in cui si mise in ginocchio davanti a me, in tono piagnucolante provò a compiacermi, spergiurando di credere alla mia versione, arrampicandosi su specchi immaginari, aggiungendo poi astutamente che "tutti dobbiamo accettare qualche compromesso!"

"Compromessi?!?!? compromessi?" Gli dissi alzandomi in piedi di scatto dalla sedia.

"Quelli proprio, No!", continuai puntando i piedi a terra.

L'avvocato aveva informato mio padre di tutti i suoi sforzi, li aveva dipinti come una via Crucis in cui io ero la sua corona di spine, il soldato che con la lancia pungolava la sua vittima, la spugna imbevuta d'aceto, ma a nulla erano valsi i suoi sforzi per farmi rinsavire.

Il giorno del processo ero molto agitata, anche se continuavo a ripetermi che non avevo ragione d'esserlo; il cuore mi balzava in gola, continuava a battere all'impazzata, non voleva ascoltare le parole che continuavo a ripetere dentro di me per rassicurarmi, come se fossero una cantilena .

Anche la testardaggine, inseparabile compagna, che mi aveva sempre sostenuto ora vacillava. La mia sicurezza era una saponetta su un pavimento bagnato, appena riuscivo ad afferrarla guizzava via sempre più lontana.

"Compromesso" … continuavo a ripetere a me stessa, forse avrei potuto annegare quel maledetto orgoglio, anzi, avrei dovuto farlo per mio padre.

Anche mio padre avrebbe pagato le conseguenze di questa storia... lo stesso cognome... è logico!

I cattivi pensieri furono spazzati via con un soffio di vento, quando la finestra del corridoio che conduceva all'aula del tribunale fu aperta.

Un profumo riempì lentamente le stanze, tutti i presenti sembrarono gustare l'aria, rimanendo sognanti come sotto ipnosi.

Era profumo di caffè appena tostato e nel silenzio di quell'oblio, in lontananza, sentii il suono di un macina caffè. Mi sporsi dalla finestra. Vidi, a chiare lettere dorate, l'insegna di un negozio "La casa del Caffè".

Quel profumo mi riconsegnò la mia sicurezza, più decisa e intensa che mai.

Con passo sicuro varcai l'aula. L'avvocato mi sorrise. Aveva capito!

La sorpresa più grande, invece, fu vedere mio padre al suo fianco.

La prova della mia innocenza entrò insieme a dieci camerieri dell'emporio sottostante. Ognuno di loro portava, con eleganza, dei vassoi d'argento con tazzine in porcellana pregiata, proprio come quella del quadro; dentro ogni tazzina un caffè appena tostato, caldo e profumato. Sembrava appena arrivato dal suo paese d'origine!

"Suo padre!" disse il mio avvocato "ha pensato a tutto suo padre".

 

Dopo tutto questo, chi poteva ancora mettere in discussione la mia verità?

 

Scritto da Simona Morchio