Storia di uno scoppiato

Sono al buio. Stretto tra due pareti. Non riesco a vedere oltre il mio naso. Non ce l’ho neanche. Un naso. Dal silenzio arrivano voci di bambini, che stanno festeggiando. Sento musica e confusione. Un uomo comunica che il costo è di due euro e descrive tutti i gingilli e i gadget presenti sulla sua bancarella. I bimbi urlano all’unisono. Mi sento spintonare. Vengo afferrato al centro del mio corpo, se si può chiamare così. Un poderoso soffio d’aria arriva dai piedi ed espande in poco tempo tutta la mia figura. Avverto un senso di abbondanza che si impadronisce di tutto l’ambiente, si aprono le pareti alla mia destra e alla mia sinistra. Più mi gonfio e più mi sento leggero. Comincio a volare. Mi acchiappano per la testa e mi riportano in basso. Lo spessore è talmente sottile che riesco a vedere le mie estremità da entrambe le parti in trasparenza. Osservo dentro e fuori di me. Mi sento contemporaneamente corpo e camera. All’interno c’è tutto lo spazio, che mi connota e nel quale vivo la mia breve parentesi esistenziale. L’esiguità e la fragilità dell’ambiente induce a pensare che non vivrò a lungo. Intravedo all’esterno le persone, che avevo sentito parlare. Ne conoscevo la voce. Ora so che con alcuni di loro dovrò percorrere il mio pezzetto di strada. Due bambini, un maschio e una femmina, otto anni lui, tredici lei. Il giorno e la notte. Edoardo, capelli rossi e crespi, lentiggini e un naso arcuato sproporzionato su un viso piccolo. Sorride con i suoi occhi sempre in cerca di avventure e cerca di afferrare tutti gli oggetti e le persone, che entrano nel suo raggio d’azione, attaccando discorsi con ogni pretesto per attirare gli sguardi dei potenziali spettatori e per guadagnarsi simpatie o qualcosa di più concreto. Marcella, capelli neri, alta, mai un dettaglio fuori posto nella pettinatura, nel modo di camminare o di atteggiarsi. Occhiate profonde e misurate, aspetta sempre che siano gli altri a rivolgerle la parola, ascolta ed evita di esporsi nelle conversazioni. Entra nei dialoghi soltanto quando le circostanze lo consentono. Rispetta il talking, dicono quelli che si intendono di psico-pedagogia e di comunicazione, ma risulta antipatica a chi non la conosce. Li vedo e ricambiano lo sguardo con l’atteggiamento di coloro che stanno per iniziare un’avventura straordinaria. Sembra che non abbiano mai visto nulla di simile in vita loro. Un uomo sulla cinquantina con i capelli unticci, grasso e trasandato, con una maglietta sporca di olio, mi stringe un filo ai piedi. Vengo legato e non mi è possibile volare. Edoardo mi afferra al guinzaglio e comincia a portarmi in trionfo fra la gente, che affolla le bancarelle. Macchina per lo zucchero filato, lampadine, torroni, ciucciotti di zucchero, medagliette dei Pjmasks. Guardo forme di tutti i tipi e colori, sento profumi di arancia e dolciumi, mischiati a fumo e benzina provenienti dagli alimentatori degli spazi espositivi. Puzza di porchetta arrostita e ascelle sudate segnala la presenza di un punto ristoro. Lì si fermano. Faccio la conoscenza di Fabrizio e Zaira, genitori dei bambini che si sono impadroniti di me. “Fermiamoci a prendere un panino. Come lo volete?”. “No, dai, voglio le patatine!”. “Io la pizza, con tanta mozzarella”. “Allora, vediamo se c’è. Porchetta, panini, patatine. No, pizza niente”. “Dai, papà andiamo da Burger King”. “Io voglio rimanere qui, ci sono le patatine. Non mi muovo!”. “Ragazzi, vostro padre sta cercando di prendere qualcosa da mangiare in questa confusione”. Alla fine si fermano. Tra tormentoni estivi e canzoni di neomelodici napoletani. Continuo a saltellare, spinto in alto e in basso da Edo. Evito un paio di cannucce, schivo l’estremità appuntita di una bancarella, trattengo il fiato e arrivo davanti alla giostra dell’autoscontro. “Papà, devo andare sulle giostre. Dammi venti euro”. “Edo. Non ti sembra di esagerare? Abbiamo comprato un cappello New Yorker, la maglietta di Cristiano Ronaldo. Basta così per stasera”. “Eddai, solo un giro. Prometto, solo l’ultimo giro”. “Ecco, l’incontentabile. Piuttosto sta’ attento, lo stai perdendo, trattieni il filo e non farlo andare sulle macchine. Scoppia!”. “Fatti i fatti tuoi. Sta’ zitta. Quella che ha preso tutti i trucchi di Iolanda, il quadretto di Irama e il cd di Benji e Fede”. “Non sono problemi tuoi. Sono alla moda. Tu sei un bambino, non capisci niente!”. “Ok. Adesso mi avete stancato. Si va tutti a casa!”. “Ma papaaaaa” – gridano entrambi. Rischio di scappare in volo tra la marmaglia, sbatto contro la testa di un ragazzino inseguito da quattro malintenzionati. Marcella mi acchiappa e mi restituisce a Edo con un’occhiataccia. Si fermano in un parco. È in penombra, non illuminato, arriva la luce della movida di qualche metro più in là. Mi sento spostare da due mani, poi da altre due, poi da un’altra coppia di arti superiori. Vago in circolo, poi da una parte all’altra. Mi gira la testa. Stanno giocando a pallavolo. “A cinque si schiaccia!” Una manata sulla testa rischia di spaccarmi. Mi afferrano e riprendo il mio giro. Non è una serata facile. Lo sapevo da quando ho sentito le prime voci. Dopo la pausa, si riprende il cammino verso casa. Mi sistemano su un tavolo. Sento voci in lontananza. “Buona notte” – una voce femminile. “Io non vado a dormire”. “Domani non piangere quando ti sveglierò. Abbiamo molte cose da fare. Fila a letto!”. “Mamma, voglio dargli un’ultima occhiata”. Nel silenzio, percepisco due occhi che mi squadrano. Afferrato dalla pancia e dai piedi. Vengo spinto in alto. Sbatto la testa contro il soffitto. Scendo. Ruoto. Risalgo. Vengo nuovamente afferrato. Prendo calci e ballonzolo sul pavimento. Mi fermo. Pausa. Sento aprirsi la porta del bagno. E sciabordio di acqua. Penso di essermi salvato. Chissà se potrò riposare. Edo, invece, esce di scatto e decide la sfida estrema: cavalcarmi. Saltello: una, due, tre volte, dalla cucina passo in cameretta. Finisco su un comodino. “Basta! È ora di dormire!”. “No! Io voglio ancora giocare!” “Papàaaaaaaaaaaaaaa”. Fabrizio sta arrivando con passo minaccioso. Si prepara la sfuriata del secolo. Non faccio in tempo a godermi la scena. La mia testa finisce sotto il piede di Edo. Pum! La casa rimbomba. Silenzio. Sono spiaccicato al suolo. Senza forma. Disteso. Un lungo riposo mi attende. Rimango ad aspettare una decisione che mi riguarderà: litigano, piangono e mi prendono, allontanandomi dalla stanza. Presto sarò inviato a qualche cassonetto dell’immondizia, caricato dal camion della nettezza urbana, schiacciato dagli altri rifiuti con cui mi contendo un posto confortevole sul camion auto compattatore. La mia storia finisce in una discarica.

 

 Racconto scritto da Michele Casiero                                                   Vai al podcast