Sono Lorenzo e l'obbedienza non è il mio mestiere

Mi chiamo Lorenzo. E sono un prete.

Non pensate a incensi, candelabri d’oro, tuniche ricamate.

La mia stola odora di strada. Profuma e stordisce.

Ho 44 anni. Da quattro sono malato. Linfogranuloma: è questo il male che mi porterà alla tomba e alla casa del Padre.

Ma soffro per altri motivi.

Non posso essere presente al processo ai miei danni. Sono stato rinviato a giudizio per apologia di reato. Ho fatto ciò che un cristiano dovrebbe fare per difendere un suo fratello. Io e don Borghi abbiamo preso carta e penna e scritto una lettera in favore del rettore del seminario di Firenze, rimosso per aver difeso l’obiezione di coscienza al servizio militare. Non comprendiamo la decisione del cardinale Florid. E non possiamo rimanere indifferenti alle parole di alcuni cappellani militari toscani. Per loro “l’obiezione di coscienza è estranea al comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”.

Ribatto colpo su colpo.

“Avete insultato dei cittadini che noi e molti ammiriamo. E nessuno, ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore. Sappiate che l’opinione pubblica oggi è più matura e non si accontenterà né di un vostro silenzio, né d’una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e mi ricrederò di eventuali errori. Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, sappiate che non ho patria nel vostro senso e che reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi, privilegiati e oppressori. Quelli sono la mia patria, gli altri sono stranieri. Nel ’22 bisognava difendere la patria aggredita. Se i preti avessero istruito i soldati ad ascoltare la coscienza anziché l’obbedienza cieca, pronta e assoluta sarebbero stati evitati 50 milioni di morti”.

Il processo è iniziato. La malattia mi impedisce persino di scendere dal letto. Figuriamoci uscire di casa. Posso solo inviare una memoria ai giudici senza partecipare alle udienze.

Sto ancora peggio, se penso che non posso stare con i miei ragazzi. Ho promesso a me stesso e a loro che non li abbandonerò. Donerò tutte le energie che mi restano. Stiamo lavorando alla stesura di un documento. È una lettera a una professoressa. In realtà è indirizzata a tutti gli insegnanti, gli educatori e a tutti coloro che si occupano dei giovani e hanno tra le mani il loro futuro. I miei ragazzi sono il dono che la vita mi ha fatto, il nutrimento delle mie giornate.

Barbiana. Pensare che mi avevano spedito là nel 1954 per non far sentire la mia voce. Un borgo sperduto tra le montagne toscane. Eppure venivo da un ambiente colto. Ho studiato in grandi città. Firenze e Milano mi hanno ospitato. Ho frequentato il Liceo classico e, durante la guerra, ho studiato i testi sacri con molta attenzione.

Non mi sono mai accontentato delle lezioni dei miei docenti: ho messo sul banco il Nuovo Testamento nell’edizione critica curata dal Merk con il Lexicon greco dello Zorell. È la mia prima protesta. Bersaglio il professore di Sacra Scrittura. Il suo modo di insegnare è approssimativo e superficiale. Non sazia la mia sete di sapere. Divento sacerdote. 13 luglio 1947. Comincio ad assaggiare la durezza del Vangelo. La raffinatezza della mia famiglia e gli studi di classici mi hanno insegnato la precisione nell’analisi filologica. Non posso, però, tenere per me questi doni. Tanta gente aspetta una condivisione. Per emanciparsi. Per non essere raggirata. Chi impara a leggere, chi diventa padrone delle parole, perviene alla conoscenza di se stesso. Assume un ruolo da protagonista nelle vicende della vita. Può far sentire la propria voce a coloro che tentano di soffocarla. Fondo una scuola popolare serale. Gli operai e i contadini ne hanno bisogno.

Il mio ministero dà i suoi frutti: per questo vengo mandato a Barbiana. Pensavano che fosse sufficiente confinarmi in montagna per spezzare i miei progetti. Ma si sono dimenticati due particolari: il Vangelo e la montagna.

La montagna è maestra. La sua imponenza si manifesta nella natura e nei caratteri delle persone. È un percorso lungo, lo so. Richiede lungimiranza. Un prete non può guardare al presente. La Parola di Dio gli chiede di intraprendere un’opera, sapendo che Lui deciderà il momento nel quale raccogliere i frutti. Non sono un modernista. Mi definiscono un contestatore. Si chiama fede. È un dono che è stato fatto a un ragazzo della “Firenze bene” per farlo giungere ai più poveri, ai disprezzati da una società gerarchica fondata sull’obbedienza. La missione di sacerdote sbatte contro il muro della realtà. Spesso mi corico con la frustrazione di colui che si è impegnato fino all’ultima goccia di sudore senza risultati. È una grande umiliazione. Vengo da una buona famiglia. Avrei potuto svolgere un ruolo autorevole. A Firenze. Non in questo paesino a cui è stata tolta la speranza.

Mai, tuttavia, neppure per un attimo, ho pensato di mollare. Riprendo da dove avevo lasciato: raduno i giovani e facciamo nascere una scuola popolare come quella che avevo fondato a San Donato. La mia attività è intensa. Il pomeriggio, la mia canonica si trasforma in un doposcuola per i ragazzi. Barbiana diventa un cantiere di progetti. Si moltiplicano le iniziative. Sono costretto a ridefinire le priorità. Rinuncio alla scuola serale e mi dedico alla scuola di avviamento industriale.

I miei testi vengono ritirati dal commercio e vengo portato a processo. Siamo tornati all’inizio del mio racconto. Il male si sta portando via la mia vita terrena e gli ultimi mesi della mia vita sono impegnati nelle udienze. Ma sono felice: i miei ragazzi porteranno avanti la missione che abbiamo tracciato insieme. Loro rappresentano l’amore di Dio nella mia vita, perciò vado via sereno.

 

Scritto da Michele Casiero                                                                Vai all'ascolto