Il viaggio onirico di Ernest Hemingway, scrittore e giornalista

    Nella notte del 23 giugno di un anno fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, Hernest Hemingway si trovava a salire per quel tratto di Aurelia che da Rapallo arriva a Ruta. Hemingway, giornalista e scrittore, stava viaggiando da Pisa e La Spezia, e lungo la ‘italian Riviera’ e stava scrivendo una serie di articoli per conto di un giornale americano, il Chronicle. 

    Era una notte magnifica, c’era la luna piena, il nastro di strada davanti a lui era così luminoso che ci si vedeva bene come in pieno giorno. Forse si poteva andare a fari spenti.

“Aurelia ….dorata, fatta d’oro – si ripeteva ad alta voce  Hemingway, con il gusto che danno le parole di una lingua straniera, quando le articoli, quasi a sbocconcellarle – Aur-elia. Strada fatta d’oro:  magari sarà vero durante il giorno. Stanotte si dovrebbe piuttosto chiamare Argentea.”

    Dopo la Spezia, salendo per la strada che passa da Biassa e per la valle del Vara, lo avevano colpito i falò che ogni paesino, ogni piccola frazione aveva acceso, nelle piazzette, nei cortili o anche solo sulla strada.

“E’ la tradizione – gli avevano spiegato due con il volto rosso di fuoco – è la notte di San Giovanni…”  e avevano anche aggiunto altre spiegazioni, ma non aveva capito bene. 

In ogni caso, anche attraverso i finestrini, si respirava una atmosfera calda, speciale, un fermento, un’agitazione che non sapeva definire. Ma c’era bisogno di definirla ?

 

    Era un po’ che Hemingway voleva fermarsi, per sentire, capire meglio quella sensazione che lo accompagnava. Sensazione magica, ma lui odiava quella parola, che tanti usano a sproposito.

Al primo slargo in località Salti in cielo, ma lo scrittore americano non poteva sapere questo nome, perché non c’era nessun cartello, né alcuna traccia sulla sua cartina stradale, al primo slargo si fermò. Uscì dall’auto e fece due passi verso la ringhiera che si sporgeva a sud, sul golfo del Tigullio. Poteva vedere tutta la strada che aveva percorso sulla costa orientale ligure fin lì. Scrisse due note sul suo taccuino, la sua Moleskine. Era stanco del viaggio, voleva arrivare a Genova.

 

    Sale in auto.

    Ma l’ auto non riparte

    Dieci, venti tentativi. Niente.

   

Non passa nessuno. E’ troppo tardi.

Comunque si mette ai bordi della strada : ‘Qui mi vedranno sicuro’.

 

Deserto. Solo un’incredibile quantità di lucciole. Ma non sono quelle che possono tenerti sveglio.

Anzi, conciliano il sonno. Si assopisce. Proprio lì, appoggiato alla pietra miliare, si addormenta come un sasso, è il caso di dire. Non sente neppure che arriva l’auto.

 

     E’ una Fiat 509 Torpedo …. Gialla e blu.

Dentro c’è tanta gente. L’auto si ferma. Lo chiamano. Hemingway si sveglia di soprassalto. Quello che sta accanto al guidatore, apre il finestrino e gli si rivolge in italiano:

-         Qualcosa non va, amico?

Ma Hemingway ha un buon orecchio e gli risponde subito in inglese :

-         My car’s out! Un dannato guasto che non capisco. E’ tutto OK, ma non parte.

-         Non sperare di trovare un meccanico a mezzanotte. Americano anche tu? – gli dice il tipo dell’auto. Ha una testata di capelli, i baffi, il pizzetto a punta e un’aria ironica.

-         Mi hai scoperto! Mi chiamo Ernest…

-         Piacere .Io sono Ezra. Ezra Pound.

-         Quel …Pound? Incredibile! Ho letto le tue poesie. E’ vero …ho letto che  a volte passi per l’Italia.

-         Che si fa? Chi è il bell’addormentato? Si va a Recco o cosa? – dicono in inglese gli altri dentro la Torpedo – abbiamo una fame da lupi!

-         Sali, amico – dice Pound – stiamo andando a cena.- Io, veramente, non passo per l’Italia, io sto studiando per essere italiano.

-         A cena … A mezzanotte passata? – obietta Hemingway -  qui non siamo a New York…

-         Eravamo ad un concerto giù a Rapallo:  Bela Bartok. Conosci? La musica fa anche venir fame.

-         Andiamo o no? – cantavano in coro quelli dell’auto. Hemingway sale e trova un po’ di posto dietro.

-         Vi presento il naufrago – dice  Pound agli altri- Ernest …americano.

Poi comincia a presentare tutti gli ospiti della Torpedo, stretti nell’ombra. E Lo scrittore passa di sorpresa in sorpresa.  Ci sono le sorelle Gish, Lillian e Dorothy. Due attrici molto famose, che avevano lavorato con Griffith il genio del primo cinema americano.

Più in fondo c’è James Laughlin, editore e poeta.

C’è pure la signora, anzi, la baronessa Jeannie Watt,  von Mumm, moglie di Alfons von Mumm, proprio il famoso barone tedesco patron della omonima casa di champagne.

E non è ancora finita. Gli dicono che dietro segue un’altra auto con Hauptmann, il drammaturgo tedesco e altri amici inglesi e italiani. Sembrano ex studenti in fuga notturna dal college, ma sono personaggi di prestigio.

- Sembra uno scherzo! – fa Hemingway – tutti famosi! Tutti nomi da prima pagina! Sembra di essere a Broadway e non a… dove siamo esattamente qui?

- Forse …in un set ! – dice una delle Gish e ride.

 

    Le due auto scendono l’Aurelia sotto la luna piena. Passano sotto l’archivolto che immette a Recco, puntano verso l’interno. Strada buia, la luce della luna non c’è più, si nasconde dietro le alte colline.

L’autista finalmente si ferma, scende e bussa ad un portone di una casa isolata. Nessuna insegna. “ Qui non c’è nessuna osteria…”, pensa Ernest.

-         Scignoa! Scignoa! – chiama l’autista.

-         Siamo arrivati – gli dicono in coro le sorelle Gish – Non sembra, ma è una Trattoria!

-         Vegnu! – una finestra in alto si apre – appare una donna coi capelli bianchi, scarmigliati.

Poi si apre la porta e la signora esce, viene avanti con un lume a petrolio e intanto lo posa e finisce di vestirsi, entra in un lungo grembiule storico, vissuto.

      Sembra una vecchia fata buona.

 

 

 

    Entrano in una grande sala, soffitto con volte a vela, a mattoni, poche luci, grandi tavoli senza tovaglie, con nomi e geroglifici di tutti i tipi incisi nel legno. Tozzi sgabelli con un buco al centro del sedile, per poterli spostare, poche le sedie.

     Odore di vino. Acuto e popolare. Gli ricordava l’odore di certe taverna spagnole.

Ma ben presto l’ostessa accese il forno e tutta la sala s’illuminò come la fucina di Vulcano.

Così Hemingway lasciò perdere la conversazione del suo gruppo e seguì il lavoro della donna, che stava nel suo cono di luce, come un pesce segue una lampara.

 

     Erano gesti antichi.

     Sicuri e veloci, come se fossero stati facili. Naturali.

Aveva preso una palla di pasta, l’aveva stesa su un piano di marmo allargata con un mattarello, poi l’aveva presa sul dorso dei due avambracci e fatta girare in aria. Come un giocoliere che fa ruotare vorticosamente un tamburello, solo che ad ogni giro il disco di pasta si allargava e si assottigliava. Alla fine, quando era diventata quasi trasparente come una carta velina, tanto da lasciar trasparire il colore rosso del fuoco, la donna l’aveva stesa su di un tegame grande. Quindi  aveva preso una formaggetta e schierato tanti piccoli e teneri cumuli  sul grande tamburo del tegame. Ed ecco che un altro disco di pasta,  manipolato allo stesso modo del primo, dopo il volo tra le braccia della cuoca, venne gettato sul formaggio.

 

     Quindi fece tanti piccoli buchi sulla pelle della pasta, la benedisse con manciate di acqua e la mise nel forno.

 

     Quando uscì la luna piena, la luna gialla della focaccia, con tutti i suoi monti più bruni, i crateri che avevano maggiormente sentito la vampa, e i mari più chiari, le pianure del formaggio fuso, liquide come il latte, quando si alzò il suo profumo e venne avanti per la sala per annunciarla, tutti i commensali fecero silenzio. Proprio come succede ad un gruppo di amici che sale una notte d’estate sul Monte per godere il plenilunio e, quando Lei sbuca fuori da dietro la catena del Ramaceto, tutti si ritrovano all’unisono in silenzio. Ma lì nella vecchia osteria il mutismo non era solo per il rispetto che destano i grandi spettacoli della natura, per l’afflato estetico, era anche che tutti stavano deglutendo.

 

     Poi il silenzio fu ancora maggiore. Tutti facevano l’Ohmm dei santoni yoga. No, facevano solo “mmmh mmmh!” con tanti punti esclamativi. Ma era un ringraziamento, un afflato universale anche quello. Era un grazie agli dei dell’erba che l’avevano fatta crescere così profumata. E poi grazie al latte, al cremmo abbondante, al caglio, alle faxelle, al vento e al sale, alla legna e al fuoco e al muratore che aveva piegato la sua fiamma nel forno. Grazie alla signora, alla piccola fata dai capelli bianchi…

 

 

    Sulla strada del ritorno, ore più tardi, Ernest Hemingway pensava a quello che aveva letto in una parete dell’osteria. Era Ezra Pound che gliel’aveva fatta notare : una foto con dedica, incorniciata e bene in risalto. Raffigurava un uomo calvo, con pizzetto mefistofelico e aria ispirata.

-          E’ Gabriele D’Annunzio. Il Vate! Il sommo poeta italiano – aveva spiegato Pound – e la dedica dice ‘Signora, io ho scritto IL PIACERE , lei me l’ha dato a tavola!’

-          Una volta tanto – aveva detto ironico Ernest – sono d’accordo con lui.

 

       

 

     Anni dopo avrebbe ripensato a quella nottata offerta da Pound e dalla sua comitiva. Di lì a poco gli avvenimenti della storia europea e mondiale li avrebbero scaraventati su due fronti opposti : Hemingway a scrivere “Per chi suona la campana” e a fare il corrispondente di guerra   per gli Alleati, Pound a innamorarsi sempre più del fascismo e del suo duce; Hemingway a fare lo sbarco in Normandia a seguito delle truppe americane, l’altro a lavorare all’Eiar, la radio del regime italiano in una trasmissione in lingua inglese, con toni fortemente anti americani.

 

 

     Comunque, quella notte del 23 giugno ( o non era già il mattino del 24?), Ernest Hemingway, scrittore e giornalista,  fu riportato alla sua auto, ferma in località Salti in cielo. Per togliersi lo sfizio, per curiosità inserì la chiave nel cruscotto, la girò…e l’auto partì. Il motore scoppiettò sì un poco, scatarrò, fece ancora la finta di fermarsi, perdendo qualche colpo, ma poi prese quota e partì.

     Regolarmente.  

 

Scritto da Franco Picetti