La notte, meglio in compagnia

Ecco, questa notte l’ho fatto ancora. L’ho fatto perché mi sentivo un tantino triste. Ho scelto di non dormire da sola. Da sola dormo da un pezzo. Un tempo né troppo lungo né troppo stretto. Stanotte non mi andava. Così mi sono messa in mezzo a quei due. Prima li avevo appena appena goduti. Prima uno. Poi l’altro. Reduce da un viaggio, ero stanca.

Con la voglia forte di fare pipì ero scesa dal treno. Vado a casa subito e mi libero. Era questa l’intenzione. Cammino piuttosto in fretta. La vescica preme. Già premeva sul treno, mentre dal posto in cui ero seduta vedevo le persone servirsi abbondantemente della toilette del vagone. Ogni volta che aprivano la porta una zaffata di ammoniaca umana mi giungeva pregnante. Come bambini golosi donne e uomini, ragazzi e ragazze, aprivano la porta di quello spazio che doveva essere angusto e vi lasciavano un poco di se stessi, una parte dei loro scarti acquosi, della loro umidità, del loro sentore.

In fretta e frettolosi i miei piedi se l’erano trovata davanti, la Feltrinelli, rossa di effe rossa, ed erano penetrati, decisi come se lo avessero pensato da prima di entrare e infischiarsene delle mie scorie acquose e della loro pretesa di rientrare a casa e scaricarsi. Avevo capito che questo significava una sola cosa: mi faccio un regalo per me. La pipì aspetta e la casina pure. Tanto già una mano mi stringe sotto lo sterno. E non ha dita delicate. Seguo i miei piedi decisa e stordita. Forse la vescica piena un poco mi ubriaca, avrà lasciato andare direttamente nel sangue l’ammoniaca in eccesso. Quella che doveva trovare sbocco nel water e non nelle mie vene.

Avanzo. Come se qualcuno o qualcosa mi mettesse fretta. Vedo i lettori seduti tranquilli, sono stati cercatori di pepite, con un paio di questi ritrovamenti in mano hanno cercato una sedia vuota e qualcuno l’ha persino trovata. Sfogliano le pepite di carta senza fretta, allora non è ora di chiusura, eppure a me sembra che qualcuno da un momento all’altro mi si avvicini per buttarmi fuori, o che l’altoparlante annunci di sbrigarci, che le casse stanno per chiudere, non penso di guardare l’orologio, tanto non conosco l’orario di chiusura, siamo alla stazione, la Centrale di Milano. A che ora chiudono le librerie alla stazione?

Scorgo i colori. Mille. Le stilettate di bianco. Le pedane su cui qualcuno ha impilato diligentemente un bottino più pesante dell’oro, e più longevo della pietra, come disse un poeta latino qualche secolo prima di Cristo. Sfioro qua e là copertine rigide di carta. Non sarei così a mio agio e così contenta di toccare qualcosa se mi trovassi da Bulgari o da qualsiasi altro orafo con le vetrine scintillanti di gioie.

Come una bambina di cent’anni fa, che entra dal caramellaio sotto casa, ho la smania di toccare, di guardare, di succhiare, di sorbire, di bere, di mangiare, di leccare, di ingoiare, di masticare, di perdermi, di sognare, di rinascere, di cucire, di tagliare, di sfogliare, di scartare, una due tre quattro, cinque pagine e un bagliore.

Sono uscita dalla Feltrinelli della stazione centrale di Milano con due libri. Stretti  nello zaino già colmo di scarpe, di slip, di un pettine senza qualche dente, di una confezione di gallette di mais sbriciolate dalla pressione degli altri oggetti. Lo zaino aveva una strana aria di felicità, che mi sorprese quanto la vescica che ormai non sentivo nemmeno più. Me l’ero persa lì tra gli scaffali.

A casa li ho tirati fuori. Intatti. Senza briciole. Senza macchie di rossetto. Senza umidità, senza alcun odore se non quello della carta stampata, giovane, fresca, intoccata, beh, forse, proprio intoccata no, ché qualcuno quei libri li aveva pure aperti, letto qualche pagina, riposti. A me sembravano vergini, come un’acqua che sgorga direttamente dalla roccia, o come l’uovo, quando la gallina lo depone direttamente dal suo intestino.

Li ho poggiati, sul tavolo. Li ho guardati mentre cenavo sul letto divano. Una sbirciata a loro due diligenti e delicati. Che stavano nel posto dove di solito si mangia. Rigidi e succosi. Silenziosi. E mentre masticavo li sbirciavo. Mentre deglutivo già immaginavo. Mentre spezzettavo con le mani il pane senza pane e lo intingevo in qualcosa che sicuramente mi nutriva, già pregustavo il loro sapore. Assaporavo il momento in cui me li sarei portati a letto. Mangiati e masticati.

Per questo ho cambiato le lenzuola. Ho agghindato il divano con biancheria profumata di bucato, si fa per dire, poiché a Milano io non riesco, perdonatemi, ad avere biancheria profumata di bucato. Forse è l’acqua forse il sole, che ne so, in ogni caso, quando cambio le lenzuola è una festa, qualcosa sento, dentro, sulla pelle. Come una promessa, forse un ricordo, di altre lenzuola e di altri bucati, profumati di sole e di vento e di acqua.

Ho letto qualche pagina di, Tre storie magiche, di Jodoroswky, poi una masticata appena dell’introduzione di un saggio riproposto dopo una ventina d’anni dalla prima edizione, Vivere momento per momento, che è quello che  sto facendo da un po’ o che sto cercando di fare.

 

È arrivata la voglia di sonno. Ho messo Jodoroswky da un lato, Jon Kabat-Zinn dall’altro. Ho spento la luce. Li ho sfiorati nel buio per assicurarmi che ci fossero, per sentirli. Per sentirmi, mentre la mano adunca sotto lo sterno lasciava la presa. E in mezzo a loro due, protetta, accompagnata, mi sono addormentata. Accarezzata come ogni notte in cui sola non sono.

 

Scritto da Ada Celico