L'uomo che avrebbe voluto essere se stesso

 

L’uomo era stato un ragazzo timido. Ma di una timidezza un po’ particolare. Non era silenzioso, né osservava in silenzio la realtà svolgersi attorno a lui come un lungo filo di lana sfuggito da un gomitolo impaziente. Era cresciuto in un quartiere popoloso e popolare di una grande città. Nel suo ambiente, quello della scuola elementare e poi delle medie, i maschi dovevano: giocare a pallone, picchiarsi all’uscita dalle lezioni e andare male a scuola. E lui credeva di doversi adeguare a ciò che la società si aspettava da lui. Giocava a pallone, provava ad entrare in qualche rissa tra dodicenni e cercava di prendere brutti voti. Non tutto gli riusciva bene. Le botte le schivava per via della stazza decisamente superiore a quella dei suoi coetanei. Quanto all’andamento scolastico, le medie erano troppo facili e sua mamma era amica della professoressa d’Italiano. Cercò di recuperare al Liceo, dove nessuno lo conosceva e la cui disciplina non aveva imparato a gestire. 

Non amava leggere. Scriveva lunghi temi, zeppi di idee confuse e, soprattutto esposte male. Ma a lui non interessavano le lezioni di Italiano. Gli piaceva, se proprio doveva scegliere una materia, la matematica e giocare col numero tre sulle spalle la domenica.

E si comportava come tutti i suoi coetanei. Provava ad essere sbruffone, cercava di farsi valere per la forza o la velocità. Era un ragazzo timido ma chiacchierone, che aveva accettato di adattarsi a tutti gli stereotipi che erano stati preparati per lui. E per tanti altri nella sua situazione.

Una cosa che proprio non gli riusciva, e questo lo angustiava molto, era di aver successo con le femmine. Riusciva a parlarci e anche molto. A loro sembrava diverso dagli altri, anche se finiva per inseguire un pallone e dire parolacce. Ma la nuvola di parole si fermava sempre prima di riuscire a dare l’ambito primo bacio. Abbiamo già detto che era timido?

“Non ci starà mai”, pensava l’uomo, quando era ragazzo. Si sentiva un perdente, anche se la vita, tutto sommato, sembrava scorrere liscia.

Iniziò ad immaginarsi come un uomo seducente, capace di avere quel “nonsochè” che gli permettesse di avere successo con le ragazze. Iniziò ad immaginare storie in cui lui era un avventuriero o un’agente segreto o un famoso calciatore. 

Passarono gli anni e le fantasie del ragazzo, oramai ventenne, si mescolarono alla vita reale. Qualche relazione, a dire il vero, arrivò. Era fisiologico e inevitabile. Ci furono i primi baci, le prime esperienze. Il ragazzo era un po’ meno timido e aveva smesso di inseguire l’immagine che di sé aveva nella mente.

Iniziò, però, a scrivere le sue emozioni. Le sue sensazioni. Erano racconti, talvolta bislacchi, spesso pieni di quell'eros che aveva represso per anni, infarciti di situazioni improbabili e bizzarre. La stranezza insita nella normalità, pensava l’uomo, lo affascinava. Aveva iniziato a leggere, durante gli anni dell’università, e aveva capito che le storie gli piacevano. Non solo quelle che viveva nella mente, ma quelle delle menti degli altri. Avessero vissuto millenni, secoli o decenni fa. 

Si rese conto, ad un certo punto, che dietro tutte le eccentricità presenti nelle parole che scriveva, c’era un unico grande tema che lo rapiva e che costituiva il suo Nord. Si trattasse di una storia di criminalità violenta, di sesso non convenzionale, di distopiche società future in cui le ipotesi testimoniavano sempre una certa incapacità umana. E questo tema era l’amore.

Non era certo originale, l’uomo. Altri uomini e altre donne, in migliaia di anni, cantando, dipingendo, scrivendo, avevano avuto in mente solo quello: l’amore. Ma a lui non interessava essere originale. Interessava soltanto, appunto, l’amore.

E fu così che iniziò a scrivere lettere d’amore.

 

Scritto da Jorma Lagorio