Format

 Ho avuto il mio primo personal computer all’età di dodici anni. Andavo alle scuole medie e il mio amico Paul – il mio migliore amico – aveva una macchina, al confronto della quale, il mio Commodore 64 era spompato come un maratoneta in preda ai crampi, poco oltre il trentesimo chilometro. Già abbastanza avanti, ma ancora così lontano dalla linea d’arrivo. Poi, mio papà, che aveva già iniziato a lavorare su database e fogli elettronici, decise che dovevo possedere un personal computer. Forse mi immaginava a custodire enormi masse di dati, pezzi di ricambio e routine di manutenzione di qualche impianto petrolifero nell’Oceano, nella memoria grande come il cassetto di un armadio di quel calcolatore di fine secolo. Io, invece, volevo solamente giocare. Ricordo, in particolare, un gioco. Sgranato dalla definizione ridicola dei primi anni Novanta, il monitor nero con caratteri ambra restituiva la figura di un gatto nero alle prese con i numerosi nemici che si era fatto nell’ambientazione del gioco. Che poi era, banalmente, un edificio di quelli che vedi nei film americani. Un vicolo stretto, dietro un isolato del Queens, una scala antincendio e tante finestre aperte su un brulicare di vita multiforme. Come lo scaffale di una biblioteca antica, esistenze si appoggiavano l’una all’altra, come pagine consumate o mai lette.

Ai tempi i giochi si trovavano su supporti di memoria che se li vedesse mia figlia penserebbe ad uno scherzo riuscito male. C’erano i dischi da cinque pollici e un quarto. Bustine di plastica nera, sottili, che custodivano una specie di pellicola piatta e tonda. Sopra erano incisi i dati che permettevano al calcolatore di immaginare il gioco e mostrartelo sullo schermo. I dischi erano, alla fine, bicchieri pieni in attesa di essere vuotati e riempiti nuovamente. Cosa fare se il tuo amico aveva un gioco che tu desideravi ardentemente? Semplice, svuotavi il disco e glielo consegnavi per fartelo restituire pieno di dati. Il primo fenomeno di contrabbando della mia vita.

C’era un comando che permetteva lo svuotamento del supporto. Format.


“Format”

“Are You Sure?”

“Yes”


E tutti i dati venivano persi - avrebbe detto il replicante Roy Batty - come lacrime nella pioggia. Trascinate verso il basso dalla gravità liquida del momento prima di morire. Per un uomo, per un androide, per la memoria di un dischetto.

A questo penso mentre la polvere galleggia nell’aria fuligginosa della fine quest’estate di inizio millennio. Il boato ha lasciato spazio a quel silenzio sordo e rumoroso tipico dei timpani lesionati. Le orecchie ronzano e io resto immobile, appiccicato al vetro di questo piccolo grattacielo a poche centinaia di metri da due torri sorelle che ardono nel fuoco improbabile di un evento che sembrava impossibile sino all’alba di questa giornata lunga ed eterna. Mi chiedo che cosa possa essere accaduto. Cosa possa aver causato una tragedia che sembra così grande. E poi mi chiedo cosa mi preparerà mia mamma per cena. Immediatamente vorrei essere a tavola con lei e con papà, lontani da tutta questa distruzione.

E mentre penso a pensieri così distanti e incoerenti, vedo la sagoma di un uomo avvicinarsi alla finestra di una delle due torri. Aprire la finestra e tuffarsi nel vuoto, con la grazia di un ginnasta che effettua il salto mortale che gli darà l’oro olimpico. Lo vedo precipitare nel vuoto, come una marionetta lanciata dal balcone, scivolare nell’oblio mentre l’inferno si allontana dalla parte opposta, in cima ai grattacieli.


“Format”

“Are you sure?”

“Y..Y.. Yes”


E poi giù, nel vuoto. Non penso al suo corpo che si sfracellerà al suolo con tanta violenza da renderlo irriconoscibile, carne infarinata dalla polvere di cemento che piove dal cielo o dalla nebbia di calcinacci che impedisce la vista a chiunque, laggiù in basso. No. Penso ai suoi ricordi. Alla sua memoria, che verrà cancellata per sempre. Ricordi densi come il fumo che sale verso l’altro, nel cielo così azzurro di Manhattan. Il nero elettrico della memoria di tutte queste vite che vengono formattate e salgono verso l’universo lassù in cima. Memorie preziose come il più enorme tesoro pirata, nascosto in una piccola isola dei Caraibi, che salgono in cielo abbracciandosi come le pagine ammuffite della più grande biblioteca dell’antichità. A farsi compagnia per sempre nel blu cosmico.


“Format”

“Are you sure?”


Matrimoni. Funerali. Nascita di figli e nipoti. La cerimonia di laurea. Il goal della squadra preferita. Il superbowl o il duello tra Magic Johnson e Larry Bird nelle finali dell’NBA. Il primo bacio e la prima volta. Il ricordo dell’attesa per un futuro che non si conosce. Tutto questo andrà perso come fumo nell’aria di settembre?

 

O i ricordi si faranno compagnia insieme da qualche parte, nel cosmo, insieme ai Kilobytes del gioco del gatto che veniva scaraventato fuori dalla finestra, precipitando nell’oscuro vicolo cibernetico del Queens, colorato di nero e ambra?

 

Scritto da Jorma Lagolio